Risultatisti vs Prestazionisti la sfida infinita delle due anime del calcio italiano

Non accenna mai a concludersi la disputa tra risultatisti e prestazionisti o forse questo scontro non rispecchia del tutto l´anima del calcio italiano.

Risultatisti di tutto il mondo, unitevi. E fatelo anche voi, prestazionisti di tutti gli stivali. Una volta, in nome del bel «giuoco» o del gioco «bruto», non necessariamente brutto, si arrivò addirittura alle mani. Successe nella tribuna dello stadio di Brescia, tra Gianni Brera e Gino Palumbo.

Palumbo mollò uno schiaffo a Brera che rispose di suo pugno. Risultatisti e prestazionisti, la scuola breriana, fondata sulla squadra femmina e il «primo, non prenderle», e raccontata con dovizia di dettagli tattici ed etnico-lombardi, contro la scuola napoletana di Antonio Ghirelli e Palumbo, appunto, che privilegiava il gol in più, la manovra ariosa e, soprattutto, Gianni Rivera, la pietra (allora) di ogni scandalo e di tutti i paragoni. L’abatino di Brera, il cherubino degli avversari.

E oggi? Ci si butta, famelici, sulle briciole del duello che Massimiliano Allegri e Lele Adani inscenarono a «Sky» dopo Inter-Juventus 1-1 e suggellarono dopo il derby del venerdì successivo. L’allenatore sembra felice di essere stato inventato dal calcio, salvo quando discute(va) il contratto con Andrea Agnelli (sette milioni e mezzo netti a stagione e la volontà-voluttà di un ritocco: però). L’opinionista, in compenso, sembra felice di aver inventato il calcio: per come si agghinda e per come lo veste. Naturalmente, «armistizio» a parte, vinse Adani perché chi si ritira ha sempre torto, anche quando ha ragione: e Allegri – ammesso che l’avesse: non ne sono sicuro – se ne andò.

Dei giocatori ormai non si parla più. Non si parla che dei domatori, con capriole e piroette che farebbero sbellicare dalle risate Nereo Rocco e Helenio Herrera. Andate a rileggervi, o a risentirvi, cosa si scrisse o si disse – di Allegri – all’indomani di Juventus-Atletico 3-0 del 12 marzo e sulle ceneri di Juventus-Ajax 1-2 del 16 aprile. Il divorzio non mi ha sorpreso: bocciato in estetica, a cinque anni (e cinque scudetti) dall’insediamento. Non trovo scandaloso battere altre strade, giusto per verificare quanto la storia della fabbrica sia così immanente e opprimente sulla cronaca dei suoi quadri e dei suoi operai. Ciò premesso, e qui mi riferisco ai media, cioè a me stesso, c’è modo e modo di cambiare idea, di sfumare i concetti. Di frenare, voglio dire, senza inchiodare così rumorosamente, così pacchianamente, con pianto e stridore di pneumatici (e incenso).

Che poi Allegri davanti ai microfoni non sia come José Mourinho, questo è un altro discorso: alcuni monologhi, in bilico prolisso tra artigli e sbadigli, ricordano i comizi dei segretari di partito costretti a giustificare al popolo l’ossimoro degli stenti e della noia da pancia piena. Resta il fatto – deontologicamente non marginale – di un trasformismo critico che fornica con i risultati dopo aver giurato eterno amore all’etica dell’armonia e, già che ci siamo, all’armonia dell’etica. Volendo approfondire il tema, usciamo per un attimo dal seminato e torniamo al Leo Messi della ritirata russa, alla mesta Pulce schiacciata dalla Roma di Eusebio Di Francesco; si recuperino gli epicedi e li si affianchino agli orgasmi per un gol di carambola e una punizione fantasmagorica (a proposito di schemi studiati in allenamento). L’uomo che, contro il Liverpool al Camp Nou, spaccò l’ordalia mi parve, a essere sinceri, Luis Suarez, il pistolero. Ma il carro di Messi era lì, a un paio di iperboli. Troppo vicino, troppo comodo: impossibile resistervi. Impossibile fino, almeno, alla Waterloo di Anfield. Liverpool quattro Barcellona zero. Non più sondaggi ecumenici tra chi fosse il più bravo del reame, se Messi o Cristiano Ronaldo. Non più genuflessioni e salamelecchi bavosi. Viceversa, il recupero – dai bauli sparsi nelle cantne dell’oppio e dell’ovvio – che il calcio è uno sport di squadra e nessuno può o sa vincere da solo. Che scoperta. Aldo Agroppi suggerisce di pesare l’allenatore sulla bilancia delle sconfitte e non, come si regolano i giullari, dei trionfi. Per Eraldo Pecci, un mister che vince lo scudetto o qualcosa di simile andrebbe «promosso» a tecnico del settore giovanile.

Risultatisti, prestazionisti, piazzisti, vedove allegre e vedove di Allegri: a caccia di una classe dirigente, siamo diventati una classe digerente. E adesso che Antonio Conte ha sposato la pazza Inter? Un martello che coniuga gioco e giocate, sospeso fra proprietà privata (del talento) e gestione comunista. Avanti popolo.

Esiste l’allenatore che gode a occupare militarmente il territorio nemico: Arrigo Sacchi, per esempio. E resiste il tecnico che di sequestrarlo non ci pensa proprio e lascia la prima mossa agli avversari, per poi impossessarsi della seconda: siamo noi, cresciuti a pane e zio Vujadin (Boskov).

Bei tempi, quando Rocco faceva il risultatista a Madrid, in finale con l’Ajax, e ci confondeva schierando Hamrin-Lodetti-Sormani-Rivera-Prati. E noi, grulli, gli si dava del catenacciaro. Con Giovanni Trapattoni la setta toccò i livelli più ruspanti finché, un giorno, non comparve Sacchi con i suoi elastici e le sue diagonali, il suo pressing e la sua intensità. Capitan Baresi alzava il braccio ed era fuorigioco da piazza del Duomo a piazza Navona. Maurizio Sarri ha lavorato in banca, come Hugo Meisl, l’architetto dell’Austria delle meraviglie, il «Wunderteam» degli anni Trenta, e Arpad Weisz, colui che lanciò Peppin Meazza e prima con l’Inter e poi con il Bologna firmò gli scudetti che, nel 1930 e nel 1936, fecero da cornice al quinquennio della Juventus di Edoardo Agnelli. Di scuola danubiana, dissertavano già allora di mutuo soccorso, di reparti coesi, di stuzzicante fusione tra Metodo e Sistema. Niccolò Mello li ha descritti in un libro dedicato ai grandi allenatori di origini ebraiche che forgiarono il calcio, «Stelle di David». Leggetelo, ne vale la pena.

E Zdenek Zeman? E Giovanni Galeone? Prestazionisti così scapestrati da vincere le partite perse e perdere le partite vinte: il primo, soprattutto. Fabio Capello appartiene alla tribù dei gestori cara ad Allegri; Marcello Lippi ha scelto di piantarsi a metà del guado didattico: non già per paura, limiti o – peggio ancora – calcoli, ma per quella filosofia di sintesi che aiuta a crescere includendo e non escludendo. Alberto Zaccheroni deve al 3-4-3 di Udine la convocazione nel novero dei «prestarisultatisti- la corrente che sventola persino Carlo Ancelotti, seguace di Arrigo da goloso stagista e, oggi, assemblatore quieto di moduli poli-funzionanti, o comunque non inchiodati al dogma: dal Chelsea al Paris, dal Real al Bayern fino al Napoli della rosa stretta e secca. Nelle posizioni e nelle mansioni, il 4-4-2 di Francesco Guidolin a Vicenza e il 4-2-4 di Gigi Delneri al Chievo furono sbornie di futurismo marinettiano. Prestazionista è Sarri, al quale l’Europa League ha tolto l’etichetta di «divertente di insuccesso». Anche se Londra non è Napoli e Jorginho non ha assicurato il trapianto di geometrie che fece della tuta sarriana una sorta di feticcio illuminista. Per tacere di Pep Guardiola, guru del tiki taka a Barcellona e di scintille più incisive, meno cesellate, a Manchester. A Jurgen Klopp dobbiamo il «gegenpressing» – in parole povere, un recupero palla il più rapido possibile – e un’attrazione per un calcio parziale e verticale che ha esaltato le doti di Mohamed Salah, Roberto Firmino e Sadio Mané. La «sesta» del Liverpool, per le modalità della trama, ha ribadito la malizia del crucco. Roberto De Zerbi, Marco Giampaolo e Di Francesco sono prestazionisti casti. Come Roberto Mancini e Simone Inzaghi, colti cerchiobottisti. Walter Mazzarri, lui, è un risultatista che i tronisti trattano con la puzza al naso degli orecchianti che si credono unti del verbo. Invece, è un signor tecnico che ha sempre scortato gli attaccanti a bottini superbi: da Igor Protti a Livorno a Nick Amoruso a Reggio Calabria, per finire a Edinson Cavani a Napoli.

Luciano Spalletti è un anarchico della lavagna che ha bisogno fisico e psicologico di nemici, come José Mourinho, di tutti gli italianisti il più scafato nell’adescare e domare le «prostitute intellettuali» che infestano i marciapiedi degli stadi. Se Diego Simeone è diventato un partito, una fazione, una fede, e in suo onore abbiamo coniato il «Cholismo», cioè l’arte di considerare il tabellino come il migliore dei mondi possibili, Gian Piero Gasperini ha trasformato l’Atalanta in un piccolo, grande laboratorio in cui si entra in punta di piedi per scrutare, per imparare, per rubare alambicchi, filtri, ricette. Gasp è un prestazionista emerito, il più inglese dei nostri precettori per il ritmo che impone alle ordalie, per le frustate che infligge ai dettagli, agli episodi. Marcano a uomo, i suoi, e questo è un tuffo in quel passato che, per fortuna o per sfortuna, non passa mai, ma marcano correndo in avanti, non indietro. Ecco qua il confine tra chi coltiva le idee e chi, al contrario, le ritiene vezzi da topi d´archivio.

D’accordo, la grandezza è un concetto assoluto mentre la bellezza un concetto relativo, e quindi ognuno di noi può fissare le gerarchie estetiche che più e meglio gli garbano. Attenzione, però, a non scivolare sulla buccia di banalità che ha slogato la dottrina esistenzialista di Allegri, secondo il quale con il bel gioco non si vince, con i risultati invece sì, come se questi fossero metafisicamente opposti a quello. Ci può essere differenza tra giocar «bello» e giocar  «bene» (in maniera organizzata, con la guardia mobile, il contropiede in canna), ma non bisogna esagerare con gli slogan, con i petardi: se giochi male e vinci, esplodono comunque sul bersaglio, ma se giochi male e perdi, scoppiano fra le mani del balilla di turno, incauto e un po’ saccente. Claudio Ranieri è un vecchio saggio che ha portato il primato della normalità al romanzesco «scudetto» del Leicester, summa straordinaria di un progetto nato in silenzio, per caso, e cresciuto in vetrina, per forza. La vitalità dei guerrieri che non si arrendono neppure all’evidenza dell’utopia: e, per questo, la raggiungono. Zinedine Zidane e Didier Deschamps sono francesi che alle bollicine del calcio champagne non hanno disdegnato di affiancare i numeri dei singoli, dal Cristiano Ronaldo madridista al Kylian Mbappé mondialista. La carriera gli ha dato tutto: non hanno bisogno di predicare il vangelo, né tanto meno di inventarsene uno, come i Sacchi, i Sarri o i Mourinho che, in gioventù, furono di passaggio e non certo di impatto. Occupano la terra di mezzo che mescola i sognatori e i segnatori. Zizou fu troppo, in campo, per cadere nel tranello di pesare tutti sulla stessa (o sulla sua) bilancia.

A sondare i collezionisti di albi d’oro, l’Ajax rimontato dal Tottenham è già stato declassato  dal rango di modello ai gradi di scolaresca immatura: un classico del trasformismo usa e getta che accompagna le analisi uterine del sentimento popolare. Al diavolo: Erik ten Hag rimane simbolo dell’élite prestazionista al netto di una caduta che ha frantumato l’epilogo, sì, senza rigare l’espansione e il messaggio stagionali. E Mauricio Pochettino? Non proprio un integralista, e nemmeno uno che si inebria di cifre. Le radici piemontesi, la culla argentina, il tirocinio spagnolo e le lezioni di inglese l’hanno reso un tecnico che cavalca l’emergenza con il fiuto dell’artigiano non schiavo degli «ismi» che, spesso, la propaganda spaccia, in base all’esito, per mosse o fosse. Gode di buona stampa, dettaglio che non guasta. Ad Amsterdam ribaltò l’Ajax con la tripletta di Lucas Moura e, soprattutto, con l’innesto di Fernando Llorente, il suo Mandzukic fresco, già decisivo contro il City. Al Wanda, pur di rischiare Harry Kane, li sacrificò entrambi. Gli dei non hanno gradito. Sostituite Pochettino con Allegri: lo avremmo fucilato per eccesso di lotteria. Altro che coccole. Parafrasando Giorgio Gaber, non temo il risultatista in sé, temo il risultatista in me. Eugenio Fascetti, l’artefice del «casino organizzato», scruta e studia la guerra di religione dal suo eremo viareggino. E sorride. Il battitore libero gira in maschera ma è sempre lì. Il falso nueve scimmiotta i centravanti arretrati della «Diagonal» sudamericana, ma per carità: guai a chi indaga. «Giocate come sapete, perché voi sapete come si gioca»: parole e musica di Fulvio Bernardini, scudetto a Firenze, scudetto a Bologna. Laureato, lo chiamavano dottor Pedata. Tutto il resto, mercato.

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