Il tango in HD degli esuberi che sono rimasti alla Juventus
Questa estate Dybala ed Higuain erano definiti esuberi e la loro cessione sembrava certa. A sorpresa sono rimasti alla Juve per renderla piu´ forte e battere Conte.
Nella Juventus che Maurizio Sarri sta cercando di portare oltra la semplicità rustica e vilipesa di Massimiliano Allegri, il toscano la cui cenere ha drogato i social, Paulo Dybala e Gonzalo Higuain sono un po’ sodali e un po’ rivali. Argentini, appartengono a un mercato che la realtà ha conteso alla fantasia. Il Pipita era già stato mollato un anno fa, prima al Milan e poi al Chelsea (di Sarri), con la formula di un prestito che l’esoso ingaggio trasformò in capestro.
La Joya, in compenso, aveva sofferto l’avvento del Cristianesimo e le novene riservategli. Abituato com’era ad Alvaro Morata, Mario Mandzukic e Higuain, a schemi spicci, verticali, finì nei gorghi di una revisione che prevedeva, dalla metà campo in su, un riciclo dei ruoli «alla Real». Il Marziano recitava se stesso. Mandzukic fu invitato a calarsi nei panni di Karim Benzema, essendo il croato, degli attaccanti in rosa, il meno lontano. Dal momento che si era in regime di 4-3-1-2, non restava che trovare un domicilio a Dybala. Al Real, Zinedine Zidane impiegava spesso Isco alle spalle di Cierre e Benzema. E ne era così tatticamente sedotto, così cocciutamente persuaso, da sacrificare niente meno che Gareth Bale, il «suo» Dybala. Allegri, lui, fece di tutto per non rinunziarvi. Adattò e incollò un lemma, «tuttocampista», al mestiere inedito del piccolo Sivori, come ci eravamo messi a chiamarlo, nella speranza che il trasloco sulla trequarti non comportasse né crisi né rigetti. Insomma: ne fece – o cercò di farne – l’Isco della Continassa.
Non funzionò, anche se all’inizio sembrava che potesse: prima di perdersi nel labirinto, Paulo rifilò, da freccia e non da arco, una tripletta allo Young Boys (senza Cristiano, squalificato) e firmò la presa di Old Trafford (senza Mandzukic, infortunato). Si smarrì a tal punto, in seguito, che la svolta fra Allegri e Sarri avrebbe dovuto sancirne il divorzio. E qui entriamo nel terreno minato e freudiano del mercato, il primo condotto, in esclusiva, da Fabio Paratici. Non c’era più Beppe Marotta, licenziato con la vaselina del contratto «consensualmente» non prolungato e, per ripicca, esule all’Inter. Fra esigenze di bilancio e dritte del nuovo mister, gli esperti del ramo riportavano, a ritmo tambureggiante, che: Dybala sarebbe stato girato al Manchester United, per Romelu Lukaku, al Tottenham oppure all’Inter in cambio dei coniugi Icardi; Mandzukic l’avrebbe accompagnato allo United; Emre Can, con Dybala, era stato adescato dal Paris Saint-Germain; Higuain non sarebbe rimasto, comunque; se ne parlò persino in chiave Roma, nel caso in cui Edin Dzeko avesse ceduto alle martellate di Antonio Conte (non cedette e tutto tramontò).
Sapete come andò. Non si mosse nessuno. Né Dybala, né Mandzukic (pronto a sloggiare a gennaio, ma siamo appena a novembre), né Emre Can, né l’Higuain di ritorno. E di Mauro Icardi o Lukaku, nemmeno l’ombra. L’anti-esodo di massa, nello sconcerto o nell’impotenza di Paratici, che pur di snellire il traffico non aveva esitato a paracadutarsi a Londra, ricorda la celeberrima uscita con la quale l’allora ministro dello Sviluppo Economico, Claudio Scajola detto «sciaboletta», cercò di sterilizzare le accuse riguardanti il costo – invero molto singolare, nella quantità e nelle modalità – di una casa romana con vista sul Colosseo: «Me l’hanno comprata a mia insaputa».
Ecco: «a mia insaputa» avrebbe potuto dirlo Paratici. Gli esiti delle operazioni furono tutti contrari alle promesse e alle premesse, non importa se per millantata propaganda, rifiuti degli acquirenti, furbizia aziendale, dispetti degli scartati. Basta frugare nel calderone: non uno che abbia tolto il disturbo. All’epoca della grande Inter, tanto per rinfrescare la memoria, esercizio che noi italiani pratichiamo con censurabile parsimonia, Helenio Herrera collocava, sempre e comunque, Mario Corso in cima all’elenco degli epurandi. Mariolino, il sinistro che ispirò a Edmondo Berselli «Il più mancino dei tiri», un agile saggio che voleva essere, e fu, un monumento di carta a uno dei più tipici atipici che il nostro calcio abbia prodotto. Calzettoni giù, punizioni a foglia morta, arte allo stato selvaggio. Al Mago non piaceva. Ad Angelo Moratti invece sì. Il presidente non faceva una piega. Leggeva la «classifica», e al nome di Corso sorrideva. Come no, Corso. Uno dei suoi cocchi. Figuriamoci. Cederlo? Neanche per idea. E la scusa fornita all’allenatore era, implacabilmente, la solita: porti pazienza, Helenio, l’ho offerto a tutti, si fidi: proprio a tutti, ma nessuno lo voleva, chi per il prezzo, chi per le altalene di rendimento, chi per non meglio precisate fisime. Nessuno. Corso resta. E restò, dal 1958 al 1973. A differenza di Herrera che, reclutato nel 1960, già nel ‘68 venne sollecitato a trovarsi un altro indirizzo.
Con Sarri a Napoli, Higuain aveva battuto tutti i record: 36 gol. A Londra, viceversa, il matrimonio risultò più tribolato. Gonzalo è un centravanti classico, molto emotivo, al quale sfuggono, talvolta, gli attimi cruciali della carriera. Nella finale mondiale del 2014, con la Germania a Rio, si mangiò – sullo 0-0 e solo davanti a Manuel Neuer – un’occasione che avrebbe potuto sabotare la trama, poi risolta, nei supplementari, da un panchinaro: Mario Goetze. Al Real lo avevano portato, prelevandolo dal River Plate, Fabio Capello e Franco Baldini.
Vi raccomando la concorrenza che trovò: Raul, Ruud Van Nistelrooy, Robinho, Arjen Robben, Kakà, Benzema, Cristiano. E, all’inizio dell’avventura, persino un sorso dell’ultimissimo Ronaldo madridista. Dirottato al Milan nell’ambito della retromarcia di Leonardo Bonucci, Higuain saltò per aria proprio contro la Juventus, a San Siro: rigore sbagliato e rosso per sfuriata isterica. Higuain va per i 32, Dybala per i 26. Insieme, alla Juventus, avevano già giocato un paio di stagioni, dal 2016 al 2018, non senza una fertile intesa che, coppe escluse, li aveva portati a realizzare, complessivamente, 73 gol: 33 Dybala, 40 Higuain. Nella «bella» di Cardiff, ai piedi del Real di Cristiano, non brillarono. Anzi:Paulo si prese un’ammonizione che, all’intervallo, scatenò una mezza rissa nello spogliatoio. Fra i più accesi, Bonucci: gli rimproverava di essere scomparso, letteralmente, come se quel giallo gli avesse spento la luce.
Erano stati gli esploratori di Maurizio Zamparini a individuarlo nella seconda divisione argentina, addirittura, e condurlo a Palermo. Marotta lo acquistò per 40 milioni di euro, meno della metà della cifra sborsata al Napoli per Higuain (90). In Nazionale, Dybala ha davanti un genio, Leo Messi, mentre Higuain si è sempre sentito vice di troppi, el Kun Aguero in testa. Allegri ha impiegato la Joya come seconda punta e, dopo lo sbarco di Cristiano, come servente al pezzo. Nel primo ruolo, un trionfo: nel secondo, non proprio.
Nella lavagna di Sarri, il Sarri napoletano, c’era (o ci sarebbe) posto per Gonzalo, non per Paulo. Ammesso e non concesso che entrambi fossero pedine su cui puntare fin dall’inizio, e non esuberi recuperati in fretta e furia alla causa attraverso lo stallo, grottesco e pittoresco, che ha scandito l’estate juventina. Con Douglas Costa disponibile, il Comandante ha battezzato il 4-3-3. Dopo il suo infortunio, è passato al 4-3-1-2 e ha riesumato Dybala. Higuain è stato titolare già a Parma, con il compare in panca. Piano piano, è arrivata l’ora del fantasista, chiamiamolo così. Sasso, non fionda. Se cercate una traccia seria, profonda, in attesa che la storia fissi i confini di uomini e schemi, dovete recuperare il tabellino di Inter-Juventus. Era la sera di domenica 6 ottobre. Vinse Madama, 2-1, e segnarono sia Dybala sia Higuain. Non in coppia, però. Paulo partì titolare e fulminò subito Samir Handanovic, il Pipita subentrò a Federico Bernardeschi, trequartista di turno, e realizzò il 2-1 dopo l’uscita del ragazzo di Laguna Larga. Il problema della convivenza passa anche, e soprattutto, da Cristiano, totem inamovibile di una religione che, in passato, si era dedicata a ben altri culti, a ben altre funzioni. Neppure Michel Platini, al suo arrivo, provocò un ribaltamento così drastico delle gerarchie.
Dybala ha qualcosa di Omar Sivori, Higuain qualcosa di David Trezeguet. Sembra quasi incredibile trovare scintille sivoriane nella postura da chierichetto della Joya. E’ più facile, in Gonzalo, scorgere la lama affilata di David, quel fiuto della porta che li mescola, al netto delle diversità morfologiche e attitudinali. Trezeguet abitava in area, Higuain ci lavora spesso: i tecnici, dal Capello «reale» all’Allegri realista, l’hanno indotto e convinto ad allungare i sentieri per aggirare gli ingorghi, ad allargare l’ufficio per non morire di tedio.Il sinistro di Dybala rammenta quello di Omar, un bisturi che incanta come un violino, un violino che taglia come un bisturi: prova ne sia la doppietta alla Lokomotiv Mosca, a tridente sguainato. Una rarità. A Lecce non c’era Cristiano, andato per tartufi; nel derby, ha aperto Dybala e chiuso Higuain gol di Matthijs De Ligt su sponda del Pipita. Contro il Milan in una partita soffertissima entra Dybala e segna il gol che vale 3 punti. Argentini, non si può raccontarli senza un cenno al tango e alle sue radici. Che sono saghe di gauchos e milonghe, di compadritos e pugnali. Perché sì, cos’è un attaccante, più ancora di un difensore, se non danza, se non musica, se non agguato? Nella poesia «El tango» Jorge Luis Borges chiede e si chiede: «Donde estarà (repito) el malevaje/ que fundò en polvorientos callejones/ de tierra o en perdidas poblaciones/ la secta del cuchillo y del coraje?» Dove sarà (ripeto) la teppaglia che in polverosi vicoli sterrati o in perduti villaggi istituì la setta del coltello e del coraggio?
Appunto, dove. Devono ballare «per», Dybala e Higuain, ma anche «contro». Il calcio, come il tango, si ciba di scosse e di sguardi, di postriboli ribollenti quali sono, sotto pressione, le aree di rigore, di momenti di grazia e disgrazia, di gesti che hanno il sospiro nascosto e bastardo del trucco, dello sgarro. Il tango è marcatura a uomo, non a zona come il samba brasiliano. Per questo, senza scomodare Diego Armando Maradona, gli argentini da noi non si sentono di passaggio: al contrario, si sentono in famiglia. Un vecchio motto riassume differenze, convenienze e convergenze: «I messicani discendono dagli Aztechi, i peruviani dagli Incas, gli argentini dalle navi». E molte di queste navi erano italiane.
Lunga è la strada, e l’autunno non è ancora tempo di sentenze: se mai, di indizi. La Juventus aveva deciso di immolare sia Dybala sia Higuain pur di esaudire esigenze economiche e tattiche. Gli incerti del mestiere non sono inferiori, se il destino ci prende gusto, alla bulimia delle plusvalenze. L’archivio è un forziere di piroette. Nel 1965 il Milan fece di tutto per recuperare José Altafini, in rotta con Gipo Viani e scappato in Brasile, lasciando così all’Inter uno scudetto già in tasca, o comunque in totale controllo. L’infortunio di Rabah Madjer, il tacco di Allah, spinse l’Inter di Giovanni Trapattoni a ripiegare su Ramon Diaz, argentino di La Rioja, un foruncolo alla fine del mondo. Non solo vinse il campionato per distacco: lo vinse a quota record. Se Mandzukic con il suo incedere allampanato e guerriero li avvicinava, Cristiano li tiene sulla corda, li ha divisi e potrebbe ancora farlo. Cristiano, Dybala, Higuain: sarebbe una triade da sogno, un congegno di raffinato tritolo. La piazza freme e preme, chissà a che punto saremo, saranno, quando leggerete queste righe. C’è partita e partita, c’è avversario e avversario: si chiamano luoghi comuni, a meno che a pronunciarli non provveda un guru, perché allora diventano postulati da sottrarre ai moccoli dei rancorosi e consegnare alla meditazione dei dotti.
Argentino è anche Julio Velasco. Sa di vita, sa di sport. Ha solcato il mondo trasformando la rete della pallavolo in un grande ponte per chiunque avesse voglia di viaggiare o cimentarsi con lui. Svolge il compito di direttore tecnico del settore giovanile delle nazionali maschili di volley. Il giorno della presentazione, a Roma, spiegò la sua filosofia con un fumetto: «Charlie Brown dice a Snoopy: “Un giorno moriremo tutti”. E Snoopy gli risponde: “Sì, ma tutti gli altri giorni no”. (da Matteo De Santis de «La Stampa», 5 luglio). Non un epitaffio, tranquilli. L’opposto: un appello a non arrendersi. Mai. Fino alla fine.
Questo articolo e´tratto dal Guerin Sportivo di Dicembre 2019. Scarica la rivista qui.